martedì 14 gennaio 2014

l'angolo della poesia - Umberto Saba

Umberto Saba (pseudonimo di Poli) nacque nel 1883 a Trieste. In quegli anni la città era sotto il dominio austro-ungarico, divisa da etnie e culture diverse, plurilingue, città di frontiera, nel tempo oggetto di separazioni, occupazioni e mutamenti geopolitici. La famiglia di Umberto era, da parte di madre, ebrea. Il padre, ricordato come un giovane "gaio e leggero", insofferente ai legami, abbandonò presto la famiglia. Il piccolo fu affidato alle cure di una balia, la slovena Gioseffa detta Peppa, che rimase per sempre nel cuore del poeta come "madre di gioia". Visse un'infanzia malinconica e frequentò le scuole con scarso rendimento. Dopo aver seguito disordinatamente a Pisa corsi di letteratura, archeologia, italiano e latino, introverso e insoddisfatto s'imbarcò come mozzo su un mercantile. Tornato a Trieste iniziò a scrivere versi e articoli per i giornali locali, mentre frequentava assiduamente il Caffè Rossetti, ritrovo di giovani intellettuali. Fu in quegli anni che conobbe e sposò Carolina Wolfler, l'amata Lina di molte sue poesie. Trasferitosi a Roma poi a Firenze, entrò in contatto con un ambiente dinamico, ricco di fermenti: stava infatti nascendo la storica rivista letteraria "La Voce", diretta da Prezzolini e in seguito da Papini. Dopo le prime difficili esperienze, alcuni editori iniziarono a pubblicare i suoi scritti. Un sofferto cammino, fra varie vicissitudini anche commerciali, profonde depressioni e fragilità interiori mai risolte; ma la critica andava scoprendo il giovane poeta e, tra esclusioni e consensi, prendeva vita una lunga produzione letteraria, un ininterrotto colloquio con la poesia. Versi decisamente antiermetici, non "frutto di artificio". Le sue le chiamava "parole senza storia", erano invece riflessioni sulla immutabile quotidianità, un itinerario semplice e trasparente, ispirazioni offerte dalla vita. Un acuto interprete di se stesso, non autobiografismo ma contemplazione. Morì a Gorizia nell'agosto del 1957. In questa poesia ricorda con struggente affetto la sua amata città. 

TRIESTE
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace, 
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
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Un'altra breve poesia

CIELO
La buona, la meravigliosa Lina
spalanca le finestre perché veda
il cielo immenso. 
Qui tranquillo a riposo, dove penso
che ho dato invano, che la fine approssima,
più mi piace quel cielo, quelle rondini,
quelle nubi. Non chiedo altro.
Fumare
la mia pipa in silenzio come un vecchio
lupo di mare.

Leda Bologna

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